13 ott 2013

Settembre 2013 - Accademici per caso ovvero il CROS al Convegno di Ornitologia CIO 2013



“Noo… hai la sigla CROS sulla targhetta…”, mi dice la Gaia. Il tono mal cela conati di impunita impertinenza da anni verdi. D’accordo, non saranno i quarti di nobiltà di un istituto universitario, ai cui vessilli fa riferimento la fanciulla, ma tant’è. Oppure, la nostra non ritiene il sottoscritto degna rappresentanza per il gruppo. E sia. In ogni caso, a dare maggiore lustro al CROS pensano altri soggetti: scorrere l’elenco dei contributi al consesso permette di ritrovare diversi nomi legati all’associazione e alla lista, dal Mattia B. all’Andrea G., da Roberto S. alla stessa Gaia. Roberto Brembilla e Giuliana Bric-à-brac Pirotta avranno di che inorgoglirsi, spero. Assente, giustificato, il prof per ruolo e per eccellenza. Poco male: attendiamo il Piero a futuri cimenti.

La cronaca collega al nome del sottoscritto (e della combriccola di Varenna) 2 poster. Uno sul Parco di Monza ("25 anni di ornitologia al Parco di Monza (Monza): una revisione critica per la stesura di linee guida gestionali"), cui han messo mano anche altri: Massimo Brigo, Checco Ornaghi, Italo Magatti e Piero Bonvicini. L’altro lavoro è sulla Valle della Nava: "La Valle della Nava: un corridoio di raccordo tra aree protette nella Brianza Lecchese (LC)". Altri personaggi lo firmano, soci dell’omonimo gruppo: su tutti, Alfio Sala e Marta “la capa” Picchi.





Accademici per caso
In consessi come questo si ritrovano gomito a gomito diverse anime: ci sono gli accademici puri e ci sono quelli che applicano a situazioni pratiche la teoria, e via andare fino agli appassionati e ai curiosi. Tra i temi permeanti le relazioni e i contributi, la conservazione occupa posto centrale. Come creare un ponte tra la ricerca stretta e il fango di chi si sporca le mani sul campo: questo il tema affrontato da uno degli ospiti del CIO 2013, Raphaël Allertaz.
La grande produzione di lavori nell’ambito della conservazione non riesce a dare impulso a decisivi e concreti passi in avanti, esordisce Allertaz. Bisogna intervenire su quella che è una vera e propria divisione tra mondo accademico da una parte e operatori attivi in progetti concreti di salvaguardia della natura. C’è una correlazione negativa tra numero di pubblicazioni e incremento della biodiversità. Le due parti devono cooperare.
Prendiamo i biologi della conservazione. Dovrebbero sottoporre a un controllo sperimentale le loro proposte e raccomandazioni; in altre parole, dovrebbero seguire un processo integrato: trasferimento di conoscenze, miglioramento e aggiornamento, controllo dell’efficienza delle loro prescrizioni, e, infine, diffusione dei risultati in maniera globale.
C’è un altro problema nella biologia della conservazione: il dilemma tra conservazione basata su evidenze di campo e conservazione basata sulla voce degli esperti. È curioso come molte operazioni e molti progetti attivati sul campo trovino fondamento e riferimenti nella letteratura disponibile, ma dall’altra parte molto spesso chi lavora sul campo non inserisca poi quanto apparso in pubblicazioni. Studi hanno dimostrato come perfino nel Regno Unito – terra dove la cultura scientifica trova ampia e forte tradizione – solo il 2-4% dei progetti di conservazione siano basati su solide basi scientifiche e sperimentali: un altro settore, quindi, in cui intervenire.
L’invito di Allertaz è ad annullare una sorta di linea divisoria che separa i due mondi citati e a creare dei presupposti affinché chi detiene il potere decisionale e amministra la cosa pubblica riceva significativi stimoli a ben operare.

Aironi in Valpadana e non solo
Non poche persone si muovono già nel solco che Allertaz vuole tracciare. Tra gli altri, il gruppo di lavoro pavese: Violetta Longoni e compari. Hanno le risaie padane ancora grande valore naturalistico? La fama tra noi appassionati di volatili è più che buona. “Ma”, si domanda Violetta, “è una fama ancora meritata?”. Attualmente, il paesaggio risicolo si fa sempre più povero e monotono.     
Le linee indicate dalla nuova PAC, fresca di stesura (2014-2020), esenta le risaie dall’obbligo di utilizzare parte dei fondi disponibili per l’ambiente. Tale provvedimento discende, chiosa la relatrice, proprio dalla reputazione di ecosistemi ricchi in biodiversità di cui si trovano a godere. Elisa Cardarelli (sempre del gruppo pavese) ci mostra come le popolazioni di ardeidi stanno subendo una significativa contrazione. Le modalità colturali degli appezzamenti a riso sono da mettere tra gli imputati. Un elenco sommario raccoglie: livellamento laser delle superfici, asciutte ripetute, alterazione dei periodi di allagamento. Tutto questo comporta una diminuzione della biodiversità (invertebrati e anfibi in primis) con conseguente riduzione della disponibilità di cibo per gli aironi.
Il lavoro di Longoni, Cardarelli, Bogliani e altri studiosi è stato finanziato dalla Regione Lombardia (CORINAT, lo trovate in rete), con l’obbiettivo di verificare l’efficacia di alcune misure agro-ambientali nel favorire la ricchezza in specie in ambiti risicoli. La conferma è puntuale. Mantenere la presenza di riserve d’acqua durante l’anno, dare al paesaggio tratti naturaliformi, lasciare vegetazione spontanea sugli argini: questi alcuni elementi decisivi per la conservazione. E, sottolinea Violetta, tutto ciò non ha comportato riflessi negativi sul lavoro e per le tasche dei coltivatori.
Giacomo Assandri – ricerca svolta con un gruppo di lavoro – illustra problematiche simili per gli oliveti spagnoli. La specie di riferimento è la capinera, lo scenario la zona di Alicante (Spagna Meridionale). Anche in questo caso, il mantenimento di biodiversità è garantito da “situazioni meno gestite”, in particolare nel periodo invernale, durante il quale le capinere trovano foraggiamento grazie alla presenza di arbusti con frutti.
Gli spunti sono molti. Oliveti, agrumeti e risaie: per questi ambienti la PAC non prevede obbligo di finanziamenti per interventi di carattere agro-ambientale. La futura programmazione in ambito agricolo (PSR) sarà da seguire: il nostro ruolo di cultori della materia sarà importante: suggerire agli amministratori di inserire capitoli ad hoc nei futuri PSR (Piani di Sviluppo Rurale). 




Un piccolo picchio come biglietto da visita
“Ah, il Parco di Monza… famoso per il picchio minore”, a parlare non è qualche trinariciuto naturalista monsciasco o delle lande brianzole. Ma il Karol Tabarelli De Fatis da Trento: martella oggi, martella domani con la storia del piccolo (e mica tanto scontato o comune) picchio, ospite da sempre del nostro Parco, e qualche risultato salta fuori. A centinaia di chilometri di distanza, il simpatico volatile può costituire nobile biglietto da visita. Altro che autodromo, spara subito l’anticircuito che alberga e prospera in tanti di noi. Non sarà il solo, Karol, a citare il piciforme. Il venerdì fa capolino Morinellus Azzolini. Presenza sempre gradita, ovviamente. Il suo commiato in serata fa inatteso, e gradito, riferimento al pregiato ospite del nostro Parco.

Per la gioia di Massimo e Checco, che qualche mese fa han lanciato un’indagine sul simpatico volatile lungo il solco della Valle del Lambro.


Per pascoli e crode
Una sessione – visto lo scenario che ospita il CIO non poteva essere altrimenti – è dedicata all’ambiente alpino. Ahi, i soliti forcello, cedrone e pernice, commenterà l’immancabile sputasentenze. Be’, non è proprio così. Se una parte dei contributi sofferma l’attenzione sulle specie sopra citate, alcuni lavori ampliano gli orizzonti.
Antonio Rolando e il suo gruppo hanno esaminato l’impatto della presenza di piste da sci sulla biodiversità e, nel dettaglio, sulle comunità ornitiche alpine e subalpine. Gli effetti sono negativi sia a livello di habitat che di paesaggio.
Sono stati prese in considerazione diverse tipologie di ecosistemi, scelte tra le zone forestali e le aree di prateria. A differenziare le aree tra di loro una variabile: la vicinanza o meno di piste da sci. La presenza di queste strutture condiziona in modo negativo la biodiversità. Risultato è che le piste da sci producono un effetto margine negativo; tutto ciò è in contrasto con i dettami dell’ecologia classica (cfr Odum): due ambienti a contatto in questo caso non producono effetti favorevoli alla ricchezza specifica.
A quote più elevate il danno è soprattutto legato al fatto che le piste sono poco coperte dalla vegetazione, il che modifica comunque l’habitat delle specie, fornendo loro meno disponibilità di prede. La situazione è drammatica. Facciamo qualche conto. In Svizzera ci sono 2000 km di piste, in Austria 6000,  in Italia 5000. Si tratta di calcoli per difetto, comunque. Nel solo Trentino i km sono 800, quindi forse per l’Italia totale è più alto. Sulle piste la ripresa della vegetazione, in alte quote, è lentissima. Se poi la pista è gestita, la vegetazione regredisce ulteriormente.
C’è un altro aspetto. Con il riscaldamento globale, c’è la tendenza a portare le piste sempre più ad alte quote, dove peraltro le condizioni ecologiche sono più delicate. A questi scenari va aggiunto che la pressione turistica legata allo sci sta aumentando. C’è lo sci d’erba, per fare un esempio. C’è la discesa con le bici. E poi l’eliski.
Vorrei terminare con una nota di ottimismo, conclude Rolando: in situazioni di piste gestite in modo più responsabile, si può assistere al ritorno della vegetazione e di condizioni più naturali.
Molto interessante il lavoro di Dan Chamberlain, svolto insieme a Rolando. La comunicazione affronta tematiche di carattere metodologico. Argomento non da poco: in area alpina, svolgere attività di campo non è sempre agevole, e non solo dal punto di vista logistico o climatico. Di più: ogni tanto fa piacere sentire parlare di passeriformi, centro dell’attenzione nella discussione di Dan. Il contributo analizza i risultati di censimenti, considerando una serie di specie comuni e tentando di individuare delle correlazioni tra la presenza di specie e le condizioni ambientali in cui sono stati svolte le uscite.
L’utilizzo di punti di ascolto su transetti con gradiente altitudinale costituisce l’opzione migliore e più efficiente, soprattutto se si deve operare su vasta scala: l’uso del mappaggio o la tecnica dei punti di ascolto possono andare bene se si lavora su aree non molto estese.
Selezione del sito. In linea di principio, una selezione casuale non è praticabile. Concetto chiave è usare una selezione sistematica. I sentieri – ricordiamo che, in fin della fiera, sono loro a permetterci di muoverci in alta quota – non sembrano condizionare in modo significativo i dati.
Momento della giornata in cui operare. Per 7 delle 16 specie considerate, gli orari di censimento hanno mostrato una influenza significativa. Il mattino presto la possibilità di censirle era più alta. Questo aspetto è importante: lavorare a quote alte può implicare un lungo trasferimento a piedi, e arrivare troppo tardi sul posto significherebbe perdere dei dati. Non dimentichiamo che maggio e giugno sono i mesi decisivi per indagare.
C’è ancora da lavorare in questo campo. Come sottolinea Dan, su alcune specie comuni di alta quota ci mancano dati: l’invito a darsi da fare è d’obbligo. Lo studioso sta dando vita ad una rete di persone che vogliono cimentarsi.






Pallone e binocolo
Il calendario, impietoso, ricorda che il giorno dopo è sabato, per il sottoscritto consacrato alla partita a pallone al Parco di Monza. Appuntamento irrinunciabile, ebbene sì, dal lontano novembre 1979. In tanti lustri, poche le assenze, e tutte debitamente giustificate. A compensare l’assenza del sabato del convegno provvede, pensa te, Fauna Viva. Il prato prescelto è poco lontano dalla sede del convegno. Un pallone procurato alla buona, e i pali improvvisati come un tempo. Le compagini hanno un capitano, autoproclamatosi, ciascuna: da una parte il Gianpiero Calvi, sotto i cui ordini mi trovo a militare, e dall’altra l’Enrico Bassi. Detto dell’esito finale – che ci vede vincitori –, vale la pena sottolineare come il Bassi non sia proprio esempio di onestà sportiva, tra pali trasformati in segnature e, conseguenti, ritocchi arbitrari sul punteggio. “Se raccoglie così anche i dati di campo....”, commenta il più moderato. Tiremm innanz.
Nota antropologica, e curiosa, a margine: della banda pallonara fan parte – a parte una o due eccezioni – solo lombardi, per schiatta e per residenza. E il pallone diviene occasione di conoscenza reciproca per alcuni di noi, fin qui magari venuti a contatto al massimo via internet: potenze e magie della amata sfera.

Il MUSE: una storia (quasi solo) italiana
Tra il materiale distribuito agli iscritti c’è anche un ingresso omaggio per il MUSE. La stampa ha dato molto risalto al recente anzi freschissimo taglio del nastro sulla soglia della struttura museale. Le decine di migliaia di presenze dalla fine di luglio a questa parte costituiscono sicuro indice di successo. Solo luci? Chi è avvezzo a quanto avviene sotto il sole italiota non fatica a rintracciare le ombre. Tutto l’ambaradan è costato 100 milioni, di cui 30 per il solo progetto, targato immancabilmente Renzo Piano. La spesa è ingente: è immediato immaginare che qualche ripercussione negativa – leggi diminuzione di fondi per altri capitoli di spesa – potrebbe scaturirne. La conferma arriva puntuale. Una giornalista locale durante una cena post-partita (vedi sopra) ci spiega che il giocattolo costa 8 milioni l’anno per gestione e manutenzione. Il conto è presto fatto: ipotizziamo anche 300mila visitatori all’anno – stima non campata per aria ma forse un poco largheggiante – a 9 euro l’uno. Fanno 2 milioni e rotti l'anno; tenuto conto che molti visitatori pagheranno prezzi ridotti (scuole….ecc…), il bilancio finale è immediato.
Non è tutto. L’operazione ha come conseguenza la desertificazione culturale di un territorio. Investire su una struttura di tale portata comporterà anzi comporta l’inevitabile riduzione di finanziamenti per altre, e non meno meritevoli, iniziative culturali. In un zona come la provincia di Trento, che ha buona parte della popolazione dislocata in piccoli centri, il risultato è facilmente intuibile. “Per il resto della provincia” – chiosa la giornalista – “rimarrà solo la sagra, con tutto il rispetto, della patata o della birra”.
“E il museo?”, si domanderà il lettore. Detta fuori dai denti, per quello che han speso, potevano fare di meglio. Ci si aspetterebbero molte più realizzazioni e molti più dispositivi interattivi. In realtà, siamo di fronte ad una serie di piccole pillole anzi cartoline della scienza, volte più che altro a dare un poco di spettacolo. Un ulteriore dettaglio grida vendetta. Non pochi dispositivi – e intere sezioni – sono fuori uso, con buona probabilità per il sovraccarico di utenze. Forse non si aspettavano una così vivace risposta del pubblico, commenta qualcuno. Fosse anche vero, la giustificazione non regge: come presentarla a chi si è sorbito centinaia di chilometri per venire fin qui per raggiungere la biglietteria del MUSE? Progettare al meglio impianti e macchinari sarebbe stato il minimo.
A volte i dettagli sono ricchi di significato. Ciliegina sulla torta, i tanti animali imbalsamati che pendono dal soffitto a riempire lo spazio vuoto centrale che raccorda i vari piani sono anonimi. Volontà di mastro architetto: i cartellini con l’indicazione della specie avrebbe disturbato (sic) l’allestimento.

Hopp schwiiz ovvero Ornitho ovvero: monzesi a rapporto
Non poteva mancare Roberto Lardelli, giunto a Trento per parlare di Ornitho. Tema caldo, ovviamente. E non mancano le novità per il gruppo.
La stagione entrante sarà l’ultima per la raccolta dati per l’Atlante.
Tornerò sull’argomento, riprendendo la comunicazione di Lardelli. Per il momento: monzesi a rapporto! Ci manca ancora del lavoro per riuscire a concludere le attività di campo per la nostra provincia. Non sia mai che rimaniamo fuori: sarebbe onta indelebile.


Di ritorno
“Ah, lei studia gli uccelli?”. La domanda è di un passeggero sul treno che mi porta verso Monza, vedendomi intento a consultare la massa di pubblicazioni che mi ha riempito uno zaino vuoto all’andata e pieno al ritorno – consuetudine piacevole che mi accompagna in occasione di ogni convegno –. Il mio estemporaneo compagno di viaggio mi racconta di quello che vede nel suo paese di origine, in Puglia. Dalle descrizioni capisco di tratti di galline prataiole. Insomma, mica paglia, come si dice.



Matteo Barattieri

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